Nel 1992 Giovanni Falcone divenne vittima sacrificale dagli apparati dello Stato che proprio in quegli anni si preparavano a ridefinire gli assetti di potere sconvolti di lì a poco dal terremoto politico di Tangentopoli e dalla caduta dei maggiori partiti di governo. Isolato e osteggiato dalle istituzioni che egli stesso rappresentava, così come tutti i funzionari, i magistrati o gli investigatori che negli anni sono stati ammazzati da Cosa Nostra (stessa sorte toccò a Borsellino pochi mesi dopo), Falcone divenne l’“eroe borghese” usato come scudo da tutti quelli per i quali egli rappresentava la “cattiva coscienza”, gli stessi che dopo la sua morte diedero vita al Movimento antimafia nel nome della legalità, della difesa delle istituzioni, dello Stato e dell’ordine costituito.
La realtà, per molti scomoda, è un’altra: la mafia non è l’“antistato”, né un potere occulto o parallelo. Al contrario, le mafie sono strutture assolutamente compenetrate e assimilate al sistema di potere dominante. Se non ci fosse lo Stato non ci sarebbero neanche le mafie.
E a dimostrazione di ciò si potrebbe fare un elenco infinito di politici, burocrati, funzionari che – in Sicilia e non solo – hanno avuto o hanno ancora rapporti organici con Cosa Nostra e le varie mafie. Non è un caso che lo stesso Falcone ebbe a dire, una volta, che i magistrati la mafia li ammazza prima dentro i palazzi del potere e poi fuori.
Negli ultimi anni, la retorica e l’esaltazione dello Stato, della legalità e delle forze di polizia come unico antidoto al potere mafioso hanno spianato la strada a una concezione blindata della società in cui non c’è via di scampo: o stai dalla parte dello Stato e delle sue leggi, o sei un criminale. In questo modo, anche il dissenso e l’opposizione sociale sono entrate più facilmente nel mirino della repressione: se la legge dello Stato ha sempre ragione e se tutto ciò che non rientra nella legalità è di per se criminale, allora non c’è spazio per chi si oppone alle leggi sbagliate e alle tante ingiustizie che affliggono la nostra società.
Il ventesimo anniversario della strage di Capaci viene a cadere in un momento assai delicato della nostra vita. La profonda crisi economica, i disastri del capitalismo, l’assoluta inadeguatezza di una classe politica corrotta e incapace, l’arroganza dei tecnocrati al governo, stanno spianando la strada a un clima di repressione diffusa, di paura, di tensione crescente.
L’infame attentato di Brindisi, sul quale è stato urlato tutto e il contrario di tutto, si inserisce in un contesto che ricorda molto da vicino i periodi peggiori della nostra storia recente, quando il potere cercava di mettere in riga l’opinione pubblica piazzando le bombe nelle banche, nelle stazioni, sui treni. Da qualunque parte provenga, questa provocazione terroristica sortisce un effetto molto preciso: impaurire le persone, invocare il pugno di ferro, stroncare ogni manifestazione di legittimo dissenso.
Non possiamo permettere che le lancette della storia tornino indietro.
Spazio di Cultura Libert’Aria