C’è un Tinto Brass dimenticato o sconosciuto, che merita di essere riscoperto. È il giovane regista degli anni Sessanta e Settanta, che, dopo aver lavorato con Roberto Rossellini e Joris Ivens, inizia a girare film liberi e belli, ispirati dalla migliore commedia all’italiana, dal gusto per la ricerca documentaristica, dall’inventiva della Nouvelle Vague francese.
Libert’Aria, spazio di cultura nel cuore di Palermo, propone tre pellicole nell’ambito di una rassegna dedicata all’irriverente regista veneto.
Il terzo e ultimo appuntamento, Giovedì 20 marzo in via Lungarini 23 alle ore 20, è dedicato alla proiezione di “Chi lavora è perduto” (Italia/Francia 1963). La proiezione sarà preceduta da un aperitivo alle 19.
Il film è un lungo monologo interiore del suo protagonista, Bonifacio, un giovane disoccupato, allergico al lavoro e alle convenzioni sociali, che gira per Venezia, ricordando alcuni momenti della sua vita (l’infanzia, i genitori, il militare e la ex fidanzata).
Opera sperimentale e irregolare, “Chi lavora è perduto” è un film che lascia il segno ancora oggi: Brass mostra di rifiutare qualunque ideologia, celebra una visione dell’esistenza improntata al carpe diem, e privilegia una narrazione fatta di flashback rapidi e folgoranti che assecondano perfettamente lo spirito anarchico del protagonista. Cast originale con Sady Rebbot (attore del godardiano “Questa è la mia vita”), Pascale Audret, Franco (Kim) Arcalli e Tino Buazzelli. Curatissima la fotografia in bianco e nero (ma il colore compare nella sequenza del funerale comunista). Bella la colonna sonora di Piero Piccioni, che si mescola ad alcuni successi pop anni ’60 (Rita Pavone su tutti). Il film ebbe tantissimi problemi con la censura, ma Brass non tagliò nemmeno una scena, limitandosi solo a cambiare il titolo, da “Chi lavora è perduto” a “In capo al mondo”. Anche la critica del tempo, però, rimase non poco scandalizzata e disorientata.